Salvatore Giambelluca

In Café Society la rara bellezza

«La vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo».

Datemi un cinema di soli anni trenta, datemelo adesso.
Quando ho visto le prime immagini di Café Society, il 47esimo film di Woody Allen, dentro di me ho come fatto un urlo di gioia: qualcosa mi diceva che stavolta il buon vecchio Woody sarebbe stato il buon vecchio Woody, che aveva realizzato un film non soltanto bello fuori, e ho avuto ragione.

L’America dell’ante guerra, New York, Los Angeles, i sogni, i vizi, le ambizioni, l’umorismo, l’amore: Woody Allen mette in scena Café Society.

Goffredo Fofi ne ha scritto così: «Come in un vecchio gioiellino di tanti anni fa, Manhattan, addirittura in bianco e nero (fotografia di Gordon Willis, stupenda), Allen si dichiara estimatore del grande Lubitsch, incantato dalla tradizione della commedia sentimentale degli anni trenta-cinquanta, e riesce a ricrearne i modi, con l’aggiunta di una buona dose di posteriore nevrosi».

Bobby (Jesse Elsenberg) da New York va a Los Angeles con la speranza di riuscire a lavorare nel mondo del cinema. Approfitta dello zio Phil (Steve Carell) ché è un importante agente cinematografico: «Dammi un lavoro zio Phil, sono disposto a fare tutto… quasi, tutto». Incontra Veronica «Vonnie» (Kirsten Stewart) e si innamora di lei. Osserva le ville di Beverly Hills con occhi sognanti, ascolta i racconti dei protagonisti di quel mondo fatto di stereotipi che presto però lo portano a desiderare di tornare da dove è venuto: «questo posto non fa per me, vieni con me, ci prendiamo una casa a Manhattan e viviamo una vita lontano dalla finzione».

Café Society è un film bello da vedere. Il Woody Allen quasi ottantenne è riuscito a ricreare la levigata perfezione degli ambienti, la fotografia (di Vittorio Storaro) da magazine di lusso, e le battute spesso indovinate da cabaret intellettuale, che mandano ancora in visibilio i suoi estimatori mondiali (tra cui il sottoscritto).

Phil: Lui ha vinto due Premi Oscar.
Bobby: Wow, congratulazioni!
Lui: Grazie. Non mi conosce nessuno, sono uno scrittore.

A chi lo dava morto trent’anni fa, Woody ha risposto girando il suo primo film in digitale, sperimentato il colore e il bianco e nero, la camera a mano e la classicità, il calco bergmaniano e la parodia demenziale, l’espressionismo e il fellinismo. Magari a volte viene fuori un obrorio – come quella volta che passò dalle nostre parti – e altre volte un capolavoro (Midnight in Paris, 2011).

Si può essere vecchi e dannatamente moderni, il passo cruciale è rendernesene conto. Woody Allen rinunciando ad apparire al centro della scena ne ha dato una prova. Molto bravo Jesse Elsenberg, quello di The Social Network, che per il Corriere si è tolto l’etichetta da nerd rimastagli addosso dopo aver vestito i panni di Zuckerberg e ora è diventato il più bravo di tutti. In Café Society la sua interpretazione è esilarante: facce, ritmi, movenze: perfetto per essere diretto da quel vecchio genio nevrotico.

La parola «commedia» è perfettamente incastonata in Café Society, un film leggero, nostalgico, divertente, malinconico, che non sente il bisogno di approfondire o di andare oltre la superficie delle apparenze, perché in fondo non è che una storia, un tempo, una società che desiderava solo vivere al meglio l’epoca che stava vivendo.

Socrate ha detto: “La vita senza essere esaminata non è degna di essere vissuta”. Ma esaminarla non è certo un affare.

Creo cose per internet, fotografo mari e monti, leggo e scrivo storie.