Sto leggendo un libro: Il superlativo di amare, di Sergio Garufi. Me lo ha prestato Lei, dicendomi: «è bello, è scritto bene, devi leggerlo». È un libro di carta, ché a Lei gli ebook non vanno giù, quindi ha le pagine vere, da sfogliare, e una copertina, una copertina rossa da cui i vicini di posto nel pullman possono leggerne il titolo e magari conoscerne il contenuto.
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Perché Woody è sempre Woody
La verità è che Woody Allen ci ha abituati troppo bene. Perché ogni volta che andiamo a vedere un suo film ci aspettiamo il capolavoro tipo Manhattan, o Io e Annie, impazienti di poter dire appena usciti dal cinema: «Woody Allen vecchio stile!». Ma poi no. Poi arriva qualche cagata tipo To Rome With Love e via a ricoprirlo d’insulti indicandogli la strada per l’ospizio. Ma poi Blue Jasmine vince l’oscar. O meglio: Cate Blanchett vince l’oscar, diretta da Woody Allen, dicendo cose scritte da Woody Allen. E quindi forse Woody non è poi così andato. Forse quella roba con Benigni è stata solo una pessima parentesi, una scusa per scroccare una vacanza e del buon cibo.