La verità è che Woody Allen ci ha abituati troppo bene. Perché ogni volta che andiamo a vedere un suo film ci aspettiamo il capolavoro tipo Manhattan, o Io e Annie, impazienti di poter dire appena usciti dal cinema: «Woody Allen vecchio stile!». Ma poi no. Poi arriva qualche cagata tipo To Rome With Love e via a ricoprirlo d’insulti indicandogli la strada per l’ospizio. Ma poi Blue Jasmine vince l’oscar. O meglio: Cate Blanchett vince l’oscar, diretta da Woody Allen, dicendo cose scritte da Woody Allen. E quindi forse Woody non è poi così andato. Forse quella roba con Benigni è stata solo una pessima parentesi, una scusa per scroccare una vacanza e del buon cibo.
O magari la verità è che Woody si è rotto le palle di noi, degli attori, dei film, delle parole, e di dover fare un film all’anno come un Boldi qualsiasi. A Natale. Magari Woody è esausto. Magari dorme annoiato tra una scena e l’altra. E così per un film che vince l’oscar due-tre sono delle commedie-cartoline con la musica bella e i vestiti di un tempo raccontando in un’ora e mezza una storia vista e letta centinaia di volte.
Magic in the Moonlight a me è piaciuto. Emma Stone, a me è piaciuta. Forse perché non mi aspettavo uno strano tipo in fila al botteghino che cita McLuhan. A me tutti quei monologhi sul credere o non credere, sull’amore e lo scetticismo, sulla verità e l’illusione di essa mi hanno divertito. E quindi va bene anche così, pure se c’è quello che ha fatto i film con Hugh Grant che – seppur con licenza – si atteggia a Woody Allen. Va bene anche se è più noioso di Interstellar, io che Interstellar manco l’ho visto. E va bene anche se ci mettete che l’ho visto il 7 dicembre in una sala con dieci-persone-dieci e con i riscaldamenti spenti.