Durante la lettura di Tasmania, l’ultimo romanzo scritto da Paolo Giordano, ho ripensato a quella cosa che fanno i bravi scrittori: raccontare storie senza la presunzione di farlo. È un talento raro in questi tempi in cui tutti credono di avere qualcosa da dire.
Giordano ha scritto una storia sul presente e il futuro. Una storia contemporanea sulle relazioni, il lavoro, lo studio, il pianeta. Una manciata di personaggi che ruotano intorno alla vita del protagonista, un fisico quarantenne che attraversa una crisi sentimentale e professionale tra Roma, Parigi e Trieste, come alla ricerca di un sé introvabile, rifratto, disseminato in un tempo e in uno spazio che non sente mai veramente suo, o nel quale potersi riconoscere transizionalmente.
Tasmania è un romanzo minimalista: tante descrizioni e poche emozioni. C’è abbastanza scienza – argomento caro all’autore – e una serie di fatti di recente attualità, come gli attentati terroristici e il cambiamento climatico. Temi che Giordano tratta con estrema sensibilità.
Paolo Giordano attraversa l’umanità caotica, tendente alla catastrofe – di cui da sempre è l’unica responsabile – e che sempre più se ne dimentica.
Tasmania prova ad essere un libro forte nella sua pacatezza. Non ha la pretesa di raccontare qualcosa di importante, pur facendolo. Per usare un termine che userebbe Paolo Giordano: è la rifrazione naturale fra ciò che accade fuori e dentro di noi
“Dove acquisterebbe un terreno, lei? Per salvarsi, intendo. Io non farei mai una cosa del genere. Ma se proprio dovesse. In caso di Apocalisse. Novelli ci ha riflettuto qualche secondo, poi ha detto: In Tasmania. E’ abbastanza a sud per sottrarsi alle temperature eccessive. Ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l’uomo. Non troppo piccola ma comunque un’isola, quindi più facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi, mi creda”.
Tasmania, pag. 100
Questo post è tratto da Telegramma, la mia newsletter.