Un anno fa ci lasciava Gianni Celati, scrittore che ho conosciuto solo dopo la sua morte, e di questo me ne dispiaccio. Come ho già scritto, Celati è stato per me un autore folgorante. Nei suoi racconti ho trovato strade da percorrere, silenzi da ascoltare, panorami da osservare.
Condivido una lettera inedita che Celati ha scritto nel 1986 (anno in cui nascevo) a Enrico De Vivo, pubblicata dalla rivista letteraria Zibaldoni.
Caro Enrico,
è necessario scrivere per “nessuno”, in modo da non sentirsi in dovere di convincere un altro a riconoscerci come esistenze umane significative. Tutti gli ammiccamenti delle parole (ormai le parole non dicono più niente, fanno solo ammiccamenti: guardi la Tv e legga i giornali) sono questo rituale per presentare noi stessi agli altri come esistenze umane significative, sperando nel loro consenso; il quale poi è soltanto “ciò che tutti si aspettano”, ciò che viene considerato “realtà oggettiva”, l’unica valida. Andrà bene per combinare delle truffe tecnologiche, ma non per scrivere; per scrivere è tutto il contrario.
Forse c’è un regalo nello scrivere “per nessuno”. Provare a scrivere per formulare delle domande, la cui risposta davvero cambierebbe qualcosa per noi. Non domande che pretendono una risposta pronta, maneggevole, da usare come un cacciavite o un apparecchio tecnologico. Queste domande non cambiano niente per noi, ammettono e accettano l’esistente, e lo danno per scontato. Io dico domande da cui davvero dipende la nostra vita e il nostro destino, e non domande che spiegano il mondo lasciando tutto com’è. Domande che è difficilissimo formulare (ormai non sappiamo più farlo, perché vogliamo solo risposte maneggevoli) e che ci lasciano sgomenti al solo pensiero di poterle un giorno formulare.
Non credo ci sia altro. La questione è che se si cerca il consenso dell’altro, se si pretende sempre di essere riconosciuti dagli altri come esistenze umane significative, letteralmente non si ha tempo di pensare a domande che sgomentino e che ci portino verso un luogo a cui da sempre eravamo destinati. Perché cercando il consenso, si è per sempre ignari del proprio destino.
Spero che la mia risposta non le sembri troppo seria e troppo pesante. È poco seria, perché pedagogica. La prenda come le pare, suo
Gianni Celati