Andare ai concerti è tra le cose che più sono mancate in questi anni di pandemia. Vivo nella punta occidentale della Sicilia dove non è facile assistere ai concerti, quasi sempre sono nella parte opposta. Alessio Bondì invece, è venuto a Trapani in un momento dove nessuno suona dal vivo, si è portato la sua chitarra e da una panca ha condiviso la sua musica con il teatro Ariston che da un po’ di tempo prova nella difficile e ambiziosa impresa di fare spettacoli culturali in una città fin troppo spenta (bravi!).
Alessio Bondì è un cantautore, palermitano, ed ha un segno particolare: canta in dialetto. Un dialetto vero, autentico, lontano da quello esportato. La lingua siciliana di Bondì suona come una magia per l’inconscio, racconta una verità sfuggevole e poetica. In Maharìa, il suo ultimo disco, c’è una Sicilia intima e luminosa, selvaggia e vera; un luogo lontano dagli stereotipi che da decenni ne limitano le potenzialità liriche. Sembra di assistere ad un racconto letterario, dove ironia e dramma si incontrano e si scànnano (per dirla come Bondì).
Nella sua musica c’è il soul, il nu-folk, archi e fiati, ed un arcobaleno di colori. A chi gli chiede del perché uno con il suo talento canti solo in dialetto, lui risponde che ha scelto di cantare in dialetto perché gli appartiene e gli permette di andare a fondo, nel profondo. Dice che il palermitano è la lingua interiore, quella della sua infanzia, del suo mondo emotivo sommerso. È una lingua selvaggia, della rabbia, che ti sfugge di bocca quando t’incazzi. È ritenuta volgare, censurata dagli stessi palermitani (confermo), ma è attraverso il dialetto che Bondì riesce a esprimere più sentimenti.
Prima del concerto gli ho scritto che da palermitano che vive e ama Trapani, assistere ad un suo concerto nella città del vento sarebbe stato come vincere un Europeo in Inghilterra, contro gli inglesi. Ha sorriso, come me e Laura alla fine di Cerniera zip.