Quando avevo dieci anni il mio calciatore preferito era Alessandro Del Piero. Anche a vent’anni. A trent’anni invece è Claudio Marchisio, forse perché abbiamo la stessa età e siamo stati piccoli e juventini insieme, o più semplicemente perché Marchisio è classe, eleganza, modernità, anche fuori dal campo di gioco: Marchisio è il calciatore che sarei voluto diventare.
Su IL Magazine di Ottobre c’è un bellissimo ritratto su Claudio Marchisio scritto da Giuseppe De Bellis. Parla di come gioca a pallone, dei suoi punti di forza e anche del terribile infortunio che ha avuto sei mesi fa. Oggi Marchisio è sulla via del rientro, lo testimonia lui stesso ogni giorni sui suoi social (uno dei pochissimi calciatori a saperli usare). Ne pubblico un sunto sul blog.
Perché Marchisio è il centrocampista perfetto, che spesso significa il calciatore perfetto. Non è una questione di estetica, ma di funzionalità. Ha anticipato l’era dei calciatori multiruolo: è una mezzala, che qualcuno chiama interno, qualcun altro incursore. Però ha giocato ovunque. Ha fatto il trequartista e negli anni di alcune improvvisazioni tattiche della Juventus pre-Conte l’avevano addirittura messo a fare l’esterno, l’ala insomma. L’anno scorso, invece, s’è costruito come regista post-Pirlo. Già è complesso che una mezzala si trasformi in centrale puro: una questione di tempi di gioco, di ritmi, persino di tipo di corsa.
Perché la duttilità è prima un atteggiamento mentale che una capacità tecnica. Marchisio è semplicemente moderno.
L’essere di Torino, l’essere cresciuto nella Juventus e avere la possibilità di giocare titolare nella sua squadra è diventato il corollario di una storia che, in realtà, è una grande storia di campo. Cioè di gioco. Un calciatore forte, un calciatore utile, un calciatore pronto. Ecco dove sta la modernità di Marchisio: nell’essere un talento che serve a tutti, perché è gamba, è tocco, è intelligenza, è la ricerca dello spazio, quindi di un luogo in cui concretizza meglio una giocata, che nell’equazione starebbe – e sta – alla voce “tempo”. Perché qui c’è la chiave di tutto: Marchisio è fondamentale perché ha i giusti tempi di gioco, quelli dell’inserimento, quelli del contenimento, anche quelli del passaggio di prima di due metri.
Marchisio sta quindici metri più in mezzo, almeno. Oppure trenta, dipende appunto dal ruolo e dal momento. Sta dentro, quindi. Ovvero dove si decide il gioco, dove si sviluppa la partita, dove si decide tutto. Un altro italiano così non c’è.
È l’eccezionalità della normalità, Marchisio. Essenziale, sobrio, pulito. Diverso. Se resti sul campo e resti sul concetto di multiruolo, lui non è soltanto in grado di giocare in più posizioni a ogni partita, ma anche in più posizioni nella stessa partita. Lo sposti dove c’è bisogno, dove ti spinge la soluzione di gioco e la sua evoluzione durante il match. In qualunque ruolo giochi è un casello attraverso il quale passano le direttrici della partita.
Pulcini, esordienti, giovanissimi, allievi, Primavera, prima squadra. Sempre a casa e sempre con la stessa maglia. Ora, anche a non amare il concetto di bandiera e a non dare troppo peso all’emotività, si fa fatica a rimanere distaccati. 31 maggio 1998: Juventus-Inter, lui prende la palla nella sua metà campo, salta due avversari, corre, corre, corre, scambia con un compagno, uno-due, altra corsa, altro dribbling, tiro dal limite dell’area. Sinistro. Gol. Aveva dodici anni.
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=NAvYzKHtQ1Q?rel=0]Il soprannome che si porta dietro da anni è Principino e dipende dal suo aspetto gentile, dal modo di vestire e però anche dal suo modo leggero di giocare. Eppure quando una volta gli hanno chiesto di autodefinirsi ha detto: «Mi sento metà principe e metà fabbro».