Io vicino a un binario ci sono cresciuto. Chilometro 79, tra Lascari e Cefalù. Un binario unico, sì. Tagliava il casello ferroviario dei miei nonni con gli alberi di limoni del signor Bentivegna. Alberi che toccavo solo in compagnia di mio nonno, l’unico che poteva oltrepassare il binario. Io solitamente restavo al di là, con i piedi sul pietrisco dove provavo a fare le rovesciate di Gianluca Vialli.
Quando passava il treno te ne accorgevi sempre, anche se mangiavi, dormivi, leggevi un libro o guardavi una partita alla televisione. Il treno era lì. Il treno era noi.
Non appena vedevo un treno fermo lontano lo aspettavo a bordo della mia bicicletta verde pastello e provavo a batterlo in velocità. Il treno partiva piano, lento, poi andava veloce, e io cadevo. Le mani e le ginocchia insanguinate, nonna che me le tampona con del cotone ricoperto di alcol. «Meglio quello verde che non brucia, nonna».
Durante una tarda mattinata di luglio nel casello dei miei nonni quasi sempre batteva forte il sole. Se volevo l’ombra dovevo sedermi vicino la vasca che c’era vicino al pozzo. Mio nonno ci aveva costruito una tettoia retta da dei pali in legno sempre pieni di formiche dove io mettevo i denti per poi trovarci mille, duemila lire. Quando passava il treno a quell’ora non si sporgeva nessuno, niente mani da salutare, i finestrini erano sempre chiusi, tutti. Il treno correva veloce, faceva tanto rumore.
L’invidia fu una delle prime emozioni provate verso quei treni che passavano in corsa dalla mia vita. Volevo essere dentro quei vagoni, insieme a quelle persone che ci viaggiavano su. Volevo percorrere quelle rotaie calde e lucide. Vedere cosa c’era oltre quella curva tra gli alberi.
Diventato grande presi quel treno molte volte. I primi tempi mi affacciavo dal finestrino per salutare i nonni. Prima di sbracciarmi chiamavo: «sto passando, nonna». Tutto contento. Eppure non la vidi mai bene. Una volta i capelli, un’altra il braccio, un’altra volta vidi il suo grembiule sporco di sugo. Fino a quando sbracciarmi mi preoccupava di disturbare le persone che avevo sedute vicino a me. Mi promettevo che l’avrei salutata meglio al ritorno, sempre su quel binario, dal finestrino opposto.
Oggi quel casello non c’è più. Lentamente lo hanno ristretto e cancellato per costruirci una strada dall’altra parte. Però quel binario c’è sempre. Da solo. Binario unico, dicono quelli. E’ una delle poche cose che restano delle mie estati di bambino cresciuto tra una linea di confine. Chissà che tristezza senza qualcuno che si preoccupa di salutare quei vagoni semplici e vogliosi di arrivare.
Una dedica a tutte le vite spezzate e segnate dal tremendo incidente avvenuto su quel binario della Puglia, ieri. Vi saluto da qui, sbracciandomi come se avessi ancora dieci anni e un pallone sotto il braccio.