Salvatore Giambelluca

«Com’è profondo il mare»

Mi trovo a scrivere nella sala d’attesa dell’aeroporto di Cagliari. Vicino ho una signora che dice per l’ennesima volta al marito che non vuole assolutamente andare a cena dall’amico, ché già è stressata per il viaggio e in più l’ultima volta ha mangiato male e troppo piccante. Il marito cerca di tranquillizzarla poggiandole una mano sulla coscia rassicurandola che stasera non sarà come quella volta. Stasera cucina la moglie, le dice.

Dietro di me c’è un zio che tenta di infilare il carica batteria del cellulare nella presa che c’è in basso. Credo si stia sfilando la spalla. È quasi a terra. Lo guardo e penso  a questa storia della presa di corrente per il cellulare nell’aeroporto e mi sale l’angoscia. Fortuna che mi volto a guardare la bambina di fronte che salta sulle gambe della madre e guardando il computer mi chiede a quale gioco io stia giocando, col tono di una bambina stanca e assonnata. «Ad un gioco bellissimo», le rispondo.

Manca ancora molto all’imbarco: circa un’ora e mezza. Intanto c’è già chi smania per mettersi in fila fingendo di passeggiare: l’anZia. La sala si riempie lentamente di facce che aspettano di partire da settimane e di facce che non vogliono partire affatto. La mia fa parte della seconda, come quella del tizio che è appena sceso dalle scale mobili che all’andata era al mio fianco e leggeva Mauro Corona. Lo sta leggendo tutt’ora.  Lo legge mentre cammina, mentre è in fila.

Intanto un monitor sopra di me mostra le immagini dei luoghi meravigliosi che ho visto ieri e pure l’altro ieri, mentre la riproduzione casuale dell’iPod passa Com’è profondo il mare. Potrei smettere di scrivere. Potrei continuare il Commesso di Malamud. Sarebbe azione giusta e proficua, ma non riesco, non posso. È l’unico modo per riuscire a salire su quell’aereo pur pensando a ieri.

Creo cose per internet, fotografo mari e monti, leggo e scrivo storie.