Non ero mai stato a Bologna. Né in Emilia Romagna in generale. A parte di passaggio. Una volta con un amico ci siamo fermati in un autogrill nei pressi di Campogalliano. Siamo rimasti il tempo di un caffè e le prime tre pagine della Gazzetta dello Sport. Credo fosse il 2007. Avevo vent’anni.
Quando scendiamo dall’aereo sono quasi le sette di sera. Fa freddo. Il comandante aveva detto che la temperatura a bordo era vicina allo zero. «Però è sopportabile» dice Lei, ripensando al vento gelido che forte soffiava a Trapani. «Quasi quasi è meglio qua». Anche se dopo un poco la mano sul trolley mi si ghiaccia e sono costretto a mettere i guanti.
Mi ero dimenticato quanto fossero caldi i bus al nord. Dentro puoi togliere cappotto-sciarpa-guanti e continuare a sentire caldo. Che bello.
Davanti a me c’è il tizio che avevo vicino in aereo. Un ragazzo sui quaranta che fa il vigile del fuoco. In aereo mi ha mostrato orgoglioso la sua tessera da Juventus Member. Non ne avevo mai vista una dal vivo. Ha la tessera di membro doc sul portafogli ma non sa che proprio quella sera la sua squadra è a un’ora di treno da lì, a Parma, per giocare una partita di Coppa Italia. «Io la tessera non ce l’ho» gli dico, «però è come dico io, fidati». Inizialmente sembra non crederci ma non appena la gente inizia a slacciare le cinture accende il cellulare e mi dà tristemente ragione.
È un po’ di tempo che non mi sento nuovo in una città. È una sensazione che mi mancava. Mi piace guardare le cose per la prima volta: le strade, le facce del posto, la stazione. Quella di Bologna poi è una delle più famose del mondo, eppure non ci avevo mai camminato. L’avevo sempre e solo vista dal finestrino di un vagone. Chissà se era così bella pure prima di quella terribile mattina di agosto di tanti anni fa, mi chiedo guardandola da fuori.
Quando arriviamo a Fidenza fa più freddo. Sono passate le dieci e la temperatura segna meno qualcosa. Però non c’è vento, solo della leggera foschia che ci ricorda dove siamo. Alla stazione c’è poca gente, giusto un tizio con la felpa delle Ferrovie e qualcuno che spazza per terra. Ma c’è silenzio. C’è silenzio-silenzio. Anche nel bar con l’insegna blu e rossa in cui entriamo. Il proprietario è un signore sulla sessantina che si aggira tra i tavolini con una scopa. Saluta una signora con simpatia e continua a pulire per qualche istante, poi mi chiede di cosa ho bisogno. Il suo andare è lento e silenzioso. Quasi in punta di piedi. Come a non voler disturbare.
La troppa quiete mi angoscia. Eppure mi piace. La cerco. Sono un tipo quiete. Almeno così mi dicono tutti. Uno dei motivi principali che mi infastidisce della mia città è proprio il caos, le urla, i clacson. Quando la domenica mattina vado a correre il silenzio intorno mi fa pensare che la città sia bellissima, che Palermo potrebbe essere perfetta. Poi però è di nuovo lunedì.
Sono così gentili e a modo le persone del posto. Hanno tutti un fare educato e cordiale, quasi a sembrare finti, a volte. Come se la genuinità del gesto avesse più importanza del gesto. Come se qualcuno potesse preferire un gesto vero e scortese ad un «ciao, dimmi tutto» col sorriso. Ripenso a me a casa, a come guido, a come cammino, a come parcheggio, a come saluto la vicina, a come poco mi importa di apparire incazzato. L’intrinseca arroganza che abbiamo noi siculi.
Fortuna che al mio fianco c’è Lei. Lei conosce le strade, le facce, la fermata del bus. Lei sa cos’è la torta fritta. È bello avercela vicino lontano da casa. Condividere sguardi, parole, ansie, dubbi, indicazioni, numeri, tabelloni ferroviari, crackers, focacce, bottigliette d’acqua. Condividere la mano sul treno. E sentirsi a casa. Anche nel freddo, lontani dal vento.