La signora Vincenza davanti a me dice che la radiografia è per la spalla e non per la schiena. Lo urla alla tipa dell’accettazione che fa un cenno come a dire “ho capito, sì” e sbuffando le porge un foglio da firmare. Vincenza ha i capelli grigi, ed è un po’ curva su se stessa. Si tiene in piedi con l’aiuto di un bastone. Con il suo tono di voce alto e un po’ rotto chiede se gentilmente gli si può indicare dove mettere la firma perché non ha gli occhiali con sé. In realtà gli occhiali li porta, «ma sono quelli da lontano», dice. Nel frattempo che Vincenza si appresta a firmare il foglio la tipa dell’accettazione mi lancia un’occhiata come a dire “abbia pazienza”, io alzo su le spalle e faccio un sorriso, anche perché io la pazienza ce l’ho.
«Si accomodi in sala d’attesa, signora, la chiamiamo noi» le dice la tipa dell’accettazione a Vincenza. Lei risponde «sì sì, va bene» e si va sedere.
Ci sono solo tre persone in sala d’attesa, oltre a me: una ragazza con in un mano un vecchio nokia di quelli con i tasti, una signora di mezza età con le gambe accavallate e in mano una cartella con il logo dello studio e Vincenza, che nel frattempo racconta ai presenti che suo figlio l’ha bidonata all’ultimo minuto perché il nipote doveva andare a calcetto. «E che vuole farci signora mia, si può dire no ai figli?» esclama la signora con in mano la cartella.
«No, no, per carità, ma manco sì sempre però».
La ragazza in fondo alla sala sorride e divertita annuisce all’esternazione di Vincenza.
«Menomale che abito qui vicino», dice Vincenza «ché altrimenti mica potevo venire a farmi la radiografia».
Mi offro di accompagnarla appena finisce, se vuole, anche se questo le comporterebbe aspettarmi, lei mi ringrazia tre volte ma non accetta: «ancora a camminare ce la facciamo, giovanotto, poi si vedrà».
Stavolta sorrido anch’io, e penso al carisma di questa signora coi boccoli grigi e le rughe che tirano la pelle del suo viso che echeggia nella stanza.
«Tu che numero hai giovanotto?» mi chiede.
«Ventitré».
«Ah bene. Quindi io sono ventidue. Mi piace il ventidue. Mio nipote è nato il ventidue. Il ventidue giugno è nato mio nipote».
Penso che non fosse per lei quella triste sala d’attesa sarebbe silenziosa, avvolta in un gelido imbarazzo. Eppure dovrebbe essere triste, nervosa, perché suo figlio ha fatto si che fosse lì da sola, con il suo bastone. Invece no. Non lo è. O quantomeno non lo dà a vedere, perché non è il momento.
Dopo un po’ Vincenza si toglie il cappotto e lo poggia al suo fianco. Fa parecchio caldo. La differenza con l’atrio della scala è notevole, e in più «siamo proprio sotto il calorifero» dice Vincenza indicandomi sopra la testa.
Io non lo avevo notato.
Passa una giovane dottoressa che la saluta e si infila in una stanza. Vincenza la conosce, dice che è brava, che è simpatica, e io penso che nella semplicità delle sue parole era quello che volevo sentire. Dice inoltre che c’è pure l’altro dottore, «quello alto», che è bravo, ma la dottoressa lo è di più.
«Ventidue» esclama una voce proveniente dal corridoio. Con il cappotto avvolto tra le mani Vincenza lentamente si alza e se ne va, con il suo modo, con i suoi passi lenti. Non prima però di aver augurato buona fortuna a tutti.
p.s. Quella in foto è Alice Munro. Vincenza me l’ha ricordata molto.