Ricordo l’ultima volta che ho pianto per una partita: era il maggio del 1998, una finale di Champions tra Juve e Real, e Mijatović aveva deciso che anche per quell’anno niente Champions. Avevo quasi undici anni.
Oggi, come allora, il più delle volte le partite le guardo da solo. In silenzio. In assoluto silenzio, a parte qualche sporadica imprecazione non dico niente. Quando sono in compagnia invece la tensione è più smorzata, come a voler fare quello tranquillo, ma anche no.
Il volume delle mie esultanze varia da partita a partita. L’importanza, l’avversario, il momento. L’esultanza più esultanza che mi ricordi di recente è quella in Sassuolo – Juventus dello scorso campionato. Era una delle ultime partite e se vincevamo ipotecavamo lo scudetto. La partita era iniziata in salita perché il Sassuolo a sorpresa si era portato in vantaggio. Poco dopo ha pareggiato Tevez e lì esulto con moderazione. Ma esulto molto di più dopo, nel secondo tempo, quando Pirlo fa un lancio a Marchisio che fa il gol del 2 a 1. È stato il gol dello scudetto. Lì ho esultato tanto. Roba tipo corsa intorno alla stanza e scivolata finale. Ecco quando sono contento dopo un gol faccio una sorta di scivolata sulle ginocchia. Tipo così.
In questo Mondiale che si appresta a finire quasi non ho esultato. Agli unici due gol fatti della nostra Nazionale ho fatto dei versi ignoti. Al gol di Marchisio per esempio mi sono fatto scappare un leggerissimo «gool» ma poca cosa. A quello dopo di Balotelli era quasi l’una di notte e ho esultato in silenzio, come quando giochi di notte a Pes. Poi di gol non ne abbiamo più fatti e quindi basta.
Il Mondiale in Brasile sta per finire. Mancano un paio di partite e potremmo lasciarcelo alle spalle. L’ho seguito abbastanza. Di partite ne ho viste parecchie, un po’ su SkyGo e un po’ alla Rai. Quindi Italia a parte non posso lamentarmi.
È stato un Mondiale bellissimo, secondo me. Seppure un po’ prevedibile è stato molto avvincente, con partite di alto livello e molto equilibrate. L’atmosfera mi è piaciuta. Durante le partite non c’erano le odiatissime Vuvuzela che c’erano in SudAfrica e il bel tempo e i colori brasiliani rendevano le partite più piacevoli anche dal punto di vista visivo.
Dopo l’eliminazione della Nazionale ho tifato tutte le squadre che poi sono uscite: Nigeria, Algeria, Cile, Usa, Costa Rica. Tutte fuori. Tranne ieri sera che tra Brasile e Germania la mia poca simpatia per i brasiliani piagnoni mi ha portato a tifare per i tedeschi. È finita come meglio non poteva finire. Con i brasiliani che non avevano neanche quasi gli occhi per piangere: 1 a 7.
Esaltati, presuntosi, piagnoni. I brasiliani in questo Mondiale li ho odiati sin da subito. Da quando hanno iniziato a urlare il proprio inno nazionale pensando di impaurire gli avversari. Sono arrivati quasi infondo alla competizione, un po’ per fortuna e un po’ perché “ci mancava pure se uscivano al primo turno”. Al primo avversario degno hanno preso sette gol. Sette. È stata la sconfitta più dura in un mondiale per i danzatori di samba. La più sonora in una semifinale mondiale.
Gli stadi erano pienissimi di maglie gialle. Ieri per esempio era tutto un luccicare. Gente festante che non vedeva l’ora che l’arbitro fischiasse la fine ché tanto si vinceva, “mica c’è il rischio di perdere con ‘sti secchi dei tedeschi. Noi siamo lubrasìl”. Dopo il terzo-o-quarto gol della Germania il bastardissimo regista internazionale ha inquadrato un bambino in lacrime. Una cosa così in quasi trent’anni di pallone non l’avevo mai vista. E di finali ne ho perse e ne ho viste perdere, anche all’ultimo minuto. Il bambino tentava di nascondere le lacrime in un grosso bicchiere di coca cola ma era tutto inutile. Piangeva. Piangeva e basta. E l’impietoso regista ha tenuto la camera più che poteva.
Dopo il quinto gol a piangere non era solo il bambino, c’erano anche degli adulti. Tutti lì, avvolti nel loro dramma sportivo. Loro che avevano esasperato una manifestazione e loro che stavano assistendo alla più drammatica sconfitta mai vista in una Coppa del Mondo. Il capitano – David Luiz – e il portiere dalla lacrima facile – Júlio César – che durante l’inno si erano presentati con la maglia del loro giocatore chiave – Neymar – in bella mostra manco fosse morto: cafonata spaziale.
Gli organizzati e fortissimi tedeschi giustamente hanno continuato a giocare. Hanno fatto più gol che potevano. Hanno corso fin quando l’arbitro non ha detto basta. Quella storia che dice che bisogna rispettare gli avversari fermandosi è una grande stronzata. L’avversario si rispetta continuando a giocare. E poi loro – in silenzio – di partite importanti ne hanno perso più di tutti. Quindi anche no, e alla fine il più incazzato era Neur, il portiere, che ha subito un gol che avrebbe preferito non subire. Giusto per farvi capire che concetto di calcio hanno, i tedeschi.
E i brasiliani? Increduli hanno abbandonato lo stadio. Niente festa, niente samba. Solo una gelida doccia di umiltà. Sperando che almeno ai bambini le lacrime abbiano smesso di cadere.