Salvatore Giambelluca

I sogni son desideri, ma anche no

È un periodo che faccio sogni strani. Sono quasi incubi. Durante mi sveglio, mi giro e mi rigiro sperando che sia finito ma poi rientro. Quando li racconto la gente rimane esterrefatta e io mi chiedo se non è il caso di raccontarli a qualcuno bravo, che di mestiere ascolta le persone, ma meglio di no perché sono ancora giovane e ho la rata della macchina da pagare. 

L’altra notte per esempio ero vestito bene, avevo la cravatta, la camicia bianca e il fazzoletto dentro il taschino della giacca: mi stavo per andare a *sposare. Sì, sì avete capito bene. Mi trovavo in un luogo che a prima vista era tipo un castello, ma poi diventava simile a un centro commerciale perché io di castelli con le scale mobili non ne ho mai visti e sentiti. Cercavo qualcuno. Cercavo Lei. Lei non c’era, o quantomeno non ancora. Incrociavo volti familiari, amici, parenti, e anche sconosciuti. Erano lì tutti per me. C’era chi era vestito bene e chi indossava una maglietta e dei calzoncini color sabbia. Io correvo, correvo veloce, tant’è che dopo un po’ sentivo caldo e allargavo la cravatta e sbottonavo l’ultimo bottone della camicia. Di Lei nel frattempo neanche l’ombra. Io la cercavo però non pronunciavo il suo nome. Guardavo mia madre vestita come quando era ragazza che da lontano mi faceva segno di aspettare e avere pazienza. Quando pensavo di essere arrivato ho trovato un tavolo per quattro con tanto di biglietti col nome, ma il mio non c’era. Non c’era manco il prete. Non c’era nessuno. Ero seduto con dei tizi sconosciuti che mi guardavano e ridevano, ridevano. Anche gli invitati ridevano mentre agitavano il ventaglio o dei fogli di giornale per farsi fresco fino a quando non riaprii di nuovo gli occhi e sono andato a preparare il caffè.

Ieri notte invece avevo dei pantaloni leggeri beige e una polo celeste, anzi: carta da zucchero. Era estate ed ero in una stazione ma forse era anche un aeroporto perché c’erano i controlli di sicurezza. Aspettavo qualcuno. Non so dire chi aspettavo. Aspettavo e basta. Mentre aspettavo bevevo, mangiavo, leggevo e scrivevo. La gente mi parlava ed io con le gambe incrociate annuivo e guardavo l’orologio, e aspettavo. Faceva caldo, molto caldo. Mi ricordo che mi affacciai tipo in un terrazzo e vedevo il mare. Avevo di fianco un signore sulla cinquantina, alto e vestito più o meno come me che mi ha teso il pacchetto delle sue marlboro e io gli ho fatto cenno di no con la testa. Guardavamo nella stessa direzione. Guardavamo il mare. C’era una bella giornata e il mare era turchese e calmo. Meraviglioso. Non stavo più aspettando, o forse sì. Con la coda dell’occhio osservavo il signore al mio fianco che dopo un po’ è andato via. Rimasi da solo a guardare il mare e ad ascoltare dei bambini dietro che inseguivano un cane che ogni tanto abbaiava, poi ho aperto gli occhi e ho sentito il camion che il venerdì mattina scarica merce al supermercato sotto casa.

 *Non si accettano commenti tipo: Sa, è chiaro che tu ti vuoi sposare. Perché no e no. Quantomeno non oggi e non domani.

Creo cose per internet, fotografo mari e monti, leggo e scrivo storie.