Non ho visto i Grammy Awards la scorsa notte. L’unico evento americano per cui rimango sveglio ormai è la finale dei Playoff di Nba, e solo se ci sono i Lakers. Ma ho visto i video, ed ho letto i vincitori e gli sconfitti. Ho visto anche qualche foto: tutti eleganti, raggianti, con vestiti ben stirati e denti bianchissimi. Belli, bellissimi. Americani, insomma.
L’evento di ieri sera però, verrà ricordato come il ritorno in scena di Justin Timberlake. Lì dove i più grandi della musica se la menano per chi è il più bravo, Timberlake tornava dopo 7 anni dal suo ultimo disco. In mezzo delle collaborazioni, interessanti e meno, partecipazioni in vari talk per non annoiarsi sul divano, partite a golf, concerti di beneficenza con amici, e qualche film da dvd che guardi quando in tv non fanno proprio nulla.
Ha spaccato. Senza giri di parole: Justin Timberlake ieri sera li ha lasciati tutti a bocca aperta, ancora.
Chi se lo aspettava appesantito, fuori forma, stonato, tipo rockstar britannica, è rimasto deluso. Timberlake sembrava un ventenne che veniva da una boyband. Eppure di anni oggi ne ha 32.
Si è presentato in tiro, vestito bene, con tuxedo e papillon che manco James Bond e si è messo a cantare Suit & Tie, il pezzo nuovo dove sembra un nero meglio dei neri. RnB vecchia scuola, impreziosita dalla collaborazione con il migliore rapper di sempre: Jay Z, quello che prende la metropolitana, a New York, e si mette a parlare con le vecchiette.
Perfetti. Alla fine erano tutti in piedi, come ogni volta che Timberlake fa quello che gli riesce meglio: cantare.
Bentornato JT, la musica ringrazia.
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