Una cosa bella della vita è poterne catturare i momenti. Io a volte provo a descriverli, senza dargli necessariamente una forma o una spiegazione.
Circa tre anni fa di questi tempi mi apprestavo a vivere la primavera più difficile che la vita mi avesse riservato.
Ricordo ogni singolo giorno di quel periodo.
Ricordo ogni parola, ogni persona.
Ricordo il coraggio e la forza dell’incoscenza.
Ricordo la paura fottuta dell’attimo prima.
Ricordo la gioia e il sollievo del dopo.
Parte vitale di quel capitolo furono i miei compagni. Ricordo le loro voci, i loro abbracci, le loro storie.
Alcuni dicono che i compagni sia meglio sceglierseli. Cazzate. I compagni migliori sono quelli che ti ritrovi senza conoscerne il nome, come quando da bambini varchiamo con impazienza e timore la soglia della classe il primo giorno di scuola. Potenziali amicizie e amori che ci temprano il carattere.
Lorenzo lo conosco da quando sono bambino. Sono cresciuto con le sue canzoni. Siamo diventati compagni per caso, lui ha scritto alcune strofe che rimarranno incastonaste nella musica italiana ma soprattutto nella storia d’amore tra me e la donna più grandiosa che abbia mai incontrato (Laura), gliene sarò sempre grato. (La vita non riserva mica solo sgambetti).
È un compagno, Lorenzo. Era con me anche tre anni fa, quando col mio zaino pesante e le gambe tremanti entravo dentro la classe più fredda che avessi mai visitato. Lui era il solito: ottimista, sognatore, romantico, un po’ matto. Si è presentato all’appuntamento con leggerezza, come spesso fa attraverso la sua musica.
Disponibile ogni qualvolta ne sentissi bisogno, Lorenzo era al mio fianco per farmi compagnia, incoraggiarmi, darmi forza. Un ottimo compagno di banco da cui copiare.
Ricordo con nitidezza un pomeriggio di primavera sdraiato su di un comodo letto a fare i conti con lo sconforto: mi giro alla mia destra per afferrare l’iPod tra una mela e una bottiglia d’acqua, i miei vicini hanno gli occhi socchiusi, la porta è sempre aperta, dal corridoio entra silenzio, i pochi rumori provengono dalle finestre insieme al caldo, fa un caldo anomalo, (una delle primavere più calde degli ultimi anni, dicevano tutti, soprattutto chi in quei giorni viveva le giornate oltre quelle mura, ed io che temevo fosse dovuto alla mia perenne temperatura che danza sui limiti), mi porto le cuffie alle orecchie e faccio entrare Lorenzo, la sua voce familiare mi regola il respiro, mi faccio strada tra le sue parole fino a quando capisco che il modo migliore è restare immobile e farsi scuotere.
«È in questi giorni impazziti che qui si fa la storia, e lo ripeto ancora, fino a strapparmi le corde vocali», diceva Lorenzo, «ora che siamo qui, ora che siamo qui, ora che siamo qui», ripeteva fino a gridare: «noi siamo gli immortali».
Quelle parole mi fecero da corazza. Me ne servii per settimane. Sono mie, pensavo. Sono per me, ripensavo. Ad oggi le porto sul mio corpo, a coprire i segni di quel periodo, pronte a ricordarmi il valore del presente, di ogni singolo giorno.
E quando una settimana fa, a pochi passi da me, Lorenzo le cantava fino a piangerci, la mia testa ha avuto come un sussulto: per pochi secondi mi sono sentito libero e immortale, per pochi secondi sono tornato indietro nel tempo e non avevo paura.
Questa è l’arte. Ti aiuta a capire, capirti, vedere cose che non riesci. Osservare e ascoltare. Percorrere la strada in compagnia di una canzone. Perché così è indubbiamente meglio, perché così tutto diventa una storia da poter conservare nella più grande e preziosa biblioteca della vita: la nostra testa.
Grazie ancora, Lorenzo Jovanotti Cherubini.
Non so se avrò mai la voglia e la forza di raccontare al mondo dov’ero durante quella primavera di tre anni fa, ma una cosa era doverosa dirla: tu c‘eri. Sei il compagno di banco più forte che abbia mai avuto.
[vimeo 260761999 w=640 h=360]